La scelta di non aggiornare più il blog è stata voluta e non.
Da un lato, l’oggettiva mancanza di tempo, la scelta ardua di una priorità, il barcamenarsi tra smart working e la gestione di Jacopo a casa… connubio infernale.
Dall’altro lato, col tempo, ho dovuto prendere atto di quanto sia difficile e complesso scrivere della malattia.
Spesso ricevevo dopo la pubblicazione di un post messaggi di parenti o amici preoccupati, come è naturale e comprensibile che sia.
Ma questa loro preoccupazione mi creava un sommesso senso di disagio.
Come se questo esporsi, senza pelle, mi lacerasse le ferite anziché medicarmele.
Scrivere di una malattia, dicevo, è affare estremamente delicato e personale. E penso lo sia ancora di più quando non sei tu la malata in prima persona, e quindi devi mettere in conto anche il rispetto verso l’altro, le sue fragilità, parlare delle tue sofferenze senza esporre quelle di chi ha sempre scelto, per indole e carattere, di stare dietro le quinte e limitare le comunicazioni.
È come un percorso fatto di bicchieri di cristallo, troppo alto il rischio di tagliarsi, di rompere un equilibrio. Ché di te stessa sei responsabile, ma degli altri no.
E poi c’è il tabù della malattia.
Quella vecchia concezione della infermiera amorevole che assiste il malato, e dei rapporti che si rafforzano perché capisci cosa conta nella vita davvero, e dello stare uniti e coesi ecc ecc.
Vorrei sfatarlo sto mito, urlare che sono stanca di questi luoghi comuni, perché la sofferenza forse davvero ha un senso e un domani questo senso si scoprirà, ma adesso no, adesso è solo una tonnellata di cacca che ti cade addosso, pesa troppo, ti schiaccia così tanto che c’è anche poco da dire o da argomentare.
A volte la gente mi dice… quando vuoi parlare sono qui. Ma mi accorgo che in realtà ho pochissimo da dire.
La malattia non genera catarsi né illuminazione.
La malattia è dolore fisico, è notti insonni, è lacrime, è pulire sangue e merda, è non avere speranza, è vederlo appassire stretto in una morsa di mal di pancia, di schiena, di gambe, è l’ossessione della fine, è pillole prese e pillole dimenticate, fare i conti quotidiani con la mancanza di un sorriso.
È fare tutto da sola. La casa, il cane, il lavoro e naturalmente, il figlio da proteggere e sperare che questi traumi non gli condizionino troppo la vita.
È alzarsi la mattina e pregare che oggi vada un po’ meglio.
A volte succede. Ci sono giornate abbastanza normali, che quasi (quasi!) ti dimentichi. Arrivi a fine giornata e ti dici dai, sono ancora qua, posso farcela.
A volte vorresti solo sprofondare, quando passando davanti a una casa vedi una famiglia che gioca in giardino e ti ritrovi a fissarli e a piangere per la vita che avresti voluto e non potrai avere.
Poi c’è la sindrome del testimone di Geova. Quella l’ho sempre avuta. Quella paura di rompere le palle gli altri, di non voler disturbare, di creare preoccupazione, angoscia, imbarazzo. A me spiace quasi, non avere mai buone notizie da dare, come se fosse una colpa.
Potrei sfruttare il blog per la sua scelta iniziale, e tornare a parlare di maternità. Ma non ho consigli da elargire, e non credo di essere un buon esempio, in questo momento non ho grosse argomentazioni a riguardo, non riesco a concentrarmi in niente, già col lavoro faccio fatica.
Spesso penso a come sarà la vita mia e di Jacopo dopo.
Lo penso da un punto di vista sociale, psicologico e economico.
Perché tutti ti dicono che devi vivere il qui e ora, giorno per giorno.
Ma io sento che vorrei che questa storia ci insegnasse qualcosa, a cambiare vita magari, e non semplicemente abituarsi poi alla sua assenza.
Già da adesso se fosse in forma fisicamente gli direi: amore molliamo tutto, prendiamo gli ultimi soldi sul conto e viaggiamo nei posti che avresti sempre voluto vedere, quelli che quando li guardi alla televisione ti rabbui e sospiri “che vita di merda”. Andiamo. Partiamo. Mandiamo a fanculo lavoro e covid e riunioni via zoom e ore perse nel decidere la stupida sintassi di una grafica.
Ti porto dove vuoi.
Noi 3. Per sempre.
Non so come esprimere quanto mi piaccia questo articolo.
Perché mi commuove così solo la Fallaci.
Per sempre voi tre.