Quando la malattia irrompe prepotentemente in una famiglia, sconvolgendo progetti, routine e dinamiche, uno dei primi pensieri va sempre ai bambini quando presenti.
Ci chiediamo come spiegare l’argomento.
Credo si tratti di un naturale istinto di protezione.
Ricordo che, specie i primi tempi, delle volte ho pensato che avrei voluto non aver avuto figli.
Jacopo non era un motivo per lottare, ma solo una preoccupazione in più, a avrei dato l’anima pur di non causargli dolore.
Mi sono anche sentita in colpa per questi pensieri, prima di capire che erano assolutamente naturali e legittimi, oltre il senso di protezione verso di lui c’era anche un istintivo senso di protezione verso me stessa. Cercavo di viaggiare in “modalità risparmio energetico”, e i bambini, si sa, non sono esattamente quelli che ti fanno risparmiare energie.
Una delle prime domande che mi sono posta è stata: “e adesso, cosa gli dico?”
Sto zitta? aspetto che faccia qualche domanda? Come gliela spiego una cosa così grande?
è in grado, a soli 4 anni, di capire?
Quando mio marito è stato ricoverato, non dirgli niente non è stata una opzione possibile.
Sì, avrei potuto giustificare la sua assenza dicendogli che era via per una delle sue trasferte lavorative, ma era una storia che non avrebbe retto, con tutto quel via e vai di parenti e amici.
E poi sicuramente me lo avrebbe letto in faccia.
Sottovalutiamo sempre quanto i bambini sappiano leggerci in faccia, tra le righe, sulla pelle.
Quando la prima notte da soli, in preda all’ansia, sono corsa in bagno a vomitare, me lo sono improvvisamente trovato alle mie spalle, per niente intimorito.
“vomita mamma, vedrai che poi starai meglio”, mi ha detto, come in genere faccio io quando lui dà di stomaco.
Allora ho capito che mentire non sarebbe stato di nessun aiuto. Tanto meno nascondere la verità.
Ho fatto ciò che il buon senso suggeriva, gli ho detto che il papà era malato ed era in ospedale, dove dei dottori lo avrebbero aiutato a guarire.
Non ha fatto domande.
Da quel giorno, le sue domande sono sempre state pochissime.
Lui, che è il principe indiscusso dei perché.
Perché le nuvole sono bianche?
Perché i tori hanno le corna?
Perché hai i capelli neri?
Perché dobbiamo dormire?
E non chiedi perché papà sta male? come mai?
In linea di massima – non sono una psicologa, ma mi sto confrontando settimanalmente con loro e ho letto una caterva di libri a tal proposito – quando ci si chiede “come spiego la malattia a un bambino?” i consigli sono semplici:
1) Chiarezza
Parlare in maniera chiara, semplice, con esempi rapportati all’età.
Nel nostro caso, avendo il bambino solo 4 anni, la psico-oncologa ci ha suggerito di usare metafore per loro accessibili.
Ad esempio si può paragonare il tutto a un bellissimo orticello che coltiviamo, con cura e amore, e da cui nascono frutti e fiori. Ma spesso in mezzo ai frutti e i fiori troviamo anche delle fastidiose erbacce da togliere, e per toglierle possiamo strapparle via finché riusciamo, altrimenti si può usare un diserbante.
Ma il diserbante purtroppo rischia di rovinare anche i fiori belli oltre le erbacce, e questo può causare malessere.
2) Verità
Sempre, sempre dire la verità. Non usare parole come “bua”, perché la bua è qualcosa che viene ai bambini, e possono rischiare di sentirsi subito ammalati pure loro per magari un ginocchio sbucciato.
Usare anche termini come tumore o chemioterapia con naturalezza, perché i bambini non capiscono la complessità di queste parole, né le associano a una nefasta conseguenza come invece facciamo noi
La verità impedisce fraintendimenti.
Per un bambino è un attimo pensare che tutta questa situazione si sia generata per causa sua, e può vivere di sensi di colpa. “forse mio papà, mia mamma, si sono ammalati perché io non sono stato abbastanza bravo? perché li ho fatti arrabbiare?”
No no e poi no. Dicendo la verità, ovvero che a volte ci si ammala, ma si può guarire, e che sia i dottori che il papà ce la stanno mettendo tutta, si impedisce alla base che nella loro testa facciano giri di pensieri silenziosi e dannosi
3) Esternare le emozioni
Scrivevo prima, che J fa poche domande.
Si limita a chiedere di tanto in tanto quando guarisce il papà, quando potrà di nuovo prenderlo in braccio, sulle spalle.
Chiaramente il suo rapporto col padre era ed è molto di più, di quell’approccio fisico.
Ma quella parte là, che adesso manca, è forse quella che lo ha colpito maggiormente. Il segnale evidente del cambiamento. Che altrimenti forse non coglierebbe, visto che grosso modo mio marito – per ora – fa quasi la vita di sempre.
Ma siccome il non fare domande non è segnale che la testa non faccia comunque dei ragionamenti e prenda percorsi traumatizzanti, è bene provare a tirare fuori queste emozioni che si tiene dentro.
è utile ad esempio chiedere di tanto in tanto come sta, se ha domande da fare, invitarlo ad aprire l’argomento anche con un semplice: “sai, oggi io e il papà andiamo in visita dal dottore. Vuoi farci qualche domanda? noi siamo qua”
Oppure un’altra idea è far esternare col disegno, o col gioco simbolico queste sue impressioni.
4) Tranquillità trasmette tranquillità
Lo so, è ‘na parolaaaaa!
I primi tempi mi chiedevo se fosse giusto parlare della terapia, degli ospedali, delle cure, di tutti gli appuntamenti, davanti allo gnomo.
Che ascolta e registra tutto come fanno tutti i bambini, anche se non lo danno a vedere.
Due mesi fa siamo andati a Bologna per una visita con uno specialista di oncologia integrata, e l’argomento era stato sulle nostre bocche per diverse settimane.
Solo qualche giorno fa, così dal niente, J mi ha chiesto: “ma ti ricordi quando siete andati a Bologna?” sono rimasta di stucco.
Alla fine ho capito che il punto non è parlarne o meno, ma come se ne parla.
Se se ne parla con angoscia, tristezza, preoccupazione, il bambino assorbirà angoscia, tristezza e preoccupazione.
Alle volte è inevitabile che queste ci siano, allora forse in questo caso è meglio limitarsi e parlarne meno possibile, o se proprio è necessario cercare di farlo quando il bambino non c’è.
Se invece riusciamo a far entrare la terapia come parte integrante della nostra routine e della nostra quotidiana organizzazione, con disinvoltura e serenità, allora il bambino non potrà risentirne particolarmente.
Poi caspita, non serve dire che in famiglia esistono anche argomenti più interessanti di cui parlare no?
5) Siete umani, restate umani
Jacopo mi ha visto piangere diverse volte.
Non tantissime, ma è capitato. E non mi sono neanche nascosta più di tanto.
Alcune volte mi ha chiesto se stessi piangendo per qualcosa che lui avesse combinato. Mi sono limitata a dirgli assolutamente no, che piangevo perché ero un po’ triste, che mi sarebbe passata presto e con un bell’abbraccio ancora prima.
Ho evitato di dirgli che piangevo per l’angoscia, per la paura, per il terrore di non farcela, per la vita che sembra così ingiusta e invece è solo così fottutamente democratica.
Ho evitato di dirgli che ci sono certe giornate in cui non riesco a far altro che pensare ossessivamente “quanto ci manca? Quanto tempo abbiamo? 2 anni, 3, 4, quanto?”
e quel pensiero mi mangia le ore, le giornate, i sorrisi.
Ci sono cose davvero troppo complesse, e lo manderebbero solo in confusione.
Ha 4 anni. Ha solo 4 anni.
Ho letteralmente bevuto questo post con le lacrime agli occhi. Ti ringrazio per averlo scritto e condivido ogni parola. Mai mentire ai bambini, ma questo non significa riversare loro addosso le nostre angosce. La tua testimonianza è preziosa <3
Già. È un confine molto labile sai? Perché poi l’angoscia si comunica in tanti modi diversi… Grazie per essere passata
“Siete umani, restate umani.” E’ tutto qui, in queste parole pazzesche nella loro semplicità. Chiara, la cosa che apprezzo di più mentre ti leggo (e non è la prima volta che mi capita) è la tua franchezza. Dire che avresti voluto non avere un figlio a carico in questa situazione, per esempio. Hai una capacità di dire senza paura, di cui come lettrice ti ringrazio. Sono cose per cui lotto anche io, queste onestà: ma tu sei in una posizione con una prospettiva talmente diversa… nella quale questa autenticità aiuta te ma dà molto anche a noi.
La verità me la devo sempre. Mi dico che se ammetto tutto, se conosco anche i lati più oscuri e nascosti, sarà più facile avere gli strumenti per affrontare il tutto. La consapevolezza come salvezza? Chissà. Un abbraccio
Incredibile, quello che dici: sto lavorando moto proprio in tal senso: le ombre personali. Senza accogliere le quali tutto diventa difficile. Brava, Chiara. Ti abbraccio.