Ripeto questa frase spesso.
La ripeto al ragazzo che al parcheggio del supermercato cerca di vendermi calzini già consumati e fazzolettini mocciosolubili. “Grazie, non mi serve niente. Mi vuoi mettere via il carrello?”.
La ripeto al citofono, quando corro per tutto il corridoio trascinandomi dietro un vestito, uno strofinaccio, il cellulare, qualsiasi cosa abbia in mano il secondo prima, quando il cane non la smette più di abbaiare e io a fatica sento dall’altra parte della cornetta: “buonasera, vorremmo lasciarle dei depliants, ora che il figlio di nostro signore sceso…”
“MASUA ZITTO! No guardi, grazie, non mi serve niente, non la sento neanche”.
La ripeto quando mi chiamano a casa, a tutte le ore, da numeri improbabili e sconosciuti che lì per lì penso “metto giù”.
Poi rifletto su una ipotetica zia in sud Africa che potrebbe aver bisogno di me.
“Buonasera signora Chiara la chiamo per un’ offerta dell’adsl…”
“Grazie, non mi serve niente. Mi avete già chiamato 20 volte quest’ultima settimana, metto il numero in black list e voi cambiate sempre l’ultima cifra. Capisco che stiate lavorando, ma davvero non mi serve niente”.
Me lo ripeto continuamente. Quando mi viene una voglia impellente di scarpe da 120 euro abbinate a un vestito di paillettes che non metterò mai neanche a capodanno.
Non mi serve niente.
Mi serve un bel lavoro (per comprare quello che non mi serve, ironizzerebbe qualcuno).
Mi serve una vacanza.
Mi serve tempo.
Mi serve pazienza.
Mi serve una pennichella pomeridiana di quelle che durano due ore e ti svegli rimbambita.
Mi serve mangiare il pandoro senza che l’intolleranza al lattosio mi presenti il conto.
Mi serve un caminetto acceso, una coperta e un libro da leggere ininterrottamente per almeno un’ora.
A parte queste cose, anche a Natale, non mi serve niente.
Ho deciso di non fare regali e di non richiederli a mia volta.
Ho chiesto per lo gnomo solo piccole cose ai parenti più stretti.
Noi gli abbiamo preso un libro, che di giochi ne ha per l’intero quartiere e gli unici che riceveranno un pensierino saranno i miei nipoti.
Niente corsa ai regali quest’anno, niente centri commerciali affollati, niente traffico, niente fila alle casse, niente pacchi regali orribili.
Credevo che il clima natalizio ne avrebbe risentito, finora questo non è successo. Quello che più mi ha dato gioia è stato fare l’albero di Natale tutti insieme, mettere le canzoncine natalizie e girare per le strade addobbate. Forse la notte della vigilia mi potrei sentire un po’ triste, ma non credo sarà così.
Perché in realtà penso che ultimamente si sia persa la misura.
Questa ricerca spasmodica del regalo giusto, delle corse dell’ultimo minuto, del dover FAR per forza qualcosa.
E i bambini?
Ho un ricordo indelebile di qualche anno fa, di una bambina figlia di amici, con un sacco pieno di regali alto 3 volte lei.
Non finiva più di scartare, dapprima entusiasta, poi sempre più annoiata, stufa, lenta. Il gioco era diventato lo scarto del pacco, non guardava neanche più cosa ci fosse dentro. Gli adulti stavano là, a incitarla, più divertiti di lei.
Sia chiaro: non sono una che lotta continuamente contro il capitale, una che il consumismo mi fa schifo sempre e comunque e che i soldi vanno tenuti sotto il materasso.
E cerco anche di soprassedere su quella che ormai è diventata purtroppo solo una triste retorica dell’uguaglianza, dello spreco, sul pensare a chi non ha alcunché.
Non perché non sia vero, anzi, è così enormemente VERO, che forse per quello ci sfugge di mano.